Ho sempre sentito in me un anelito a cose più alte, fin dalla più tenera età. Ma fu Omero a insegnarmi il concetto di sublime. Quando lessi per la prima volta, alle scuole medie, l’Iliade di Omero ne rimasi estasiata. Quelle vicende eroiche e al contempo passionali, azioni assolute, che non permettono ripensamenti. sentimenti forti, di quelli che sanno scuotere, far tremare le viscere, là dove per i greci antichi risiedeva il centro della vita umana. Poi, noi uomini moderni ce ne siamo vergognati, di questa visceralità, e abbiamo scelto di chiamare in causa sempre il cuore per definire il sentimento.
Poi venne l’Odissea, quel poema un po’ più sofferto, la storia non di una città e dei suoi guai, bensì di un uomo. Ne fui talmente colpita che composi là per là un compendio in chiave ironica, in cui i personaggi di quel grande passato erano sostituiti con persone della mia realtà (professori di scuola, amici…). Sentirsi calamitati verso qualcosa, e allo stesso tempo vedersi incapaci di raggiungere quelle vette. Il sublime non è un caffè pura arabica che, quando lo gusti caldo con tutto il suo aroma, ti viene da dire “sublime!”. Non è neanche un vago piacere che aleggia nell’atmosfera, un’aria che diffonde le sue note per pacificarci. Già ce lo dice l’etimologia, sub limen, appena un po’ sotto la soglia. Cioè arrivare appena sotto la vetta assoluta. Ed è già tanto. Un anonimo scriveva in greco circa duemila anni fa il suo trattato, intitolato appunto “Del sublime” dove si esaminano quelle opere letterarie che toccano le corde più intime de nostro essere e ci trascinano con sé nell’Empireo. Ed ecco che, senza saperlo, all’età di undici anni, quando mi si dispiegarono le meraviglie di una letteratura ineguagliabile, quella greca, e gli albori di un narrare straordinario, feci la conoscenza con il senso del sublime. Quei versi omerici, per quanto tradotti, divennero parte di me, quelle similitudini, le parole musicali che avrei scoperto solo in seguito, studiando la lingua greca, incastrate con rigore matematico nel verso endecasillabo. E stupivo al pensiero che nulla si conoscesse di quel poeta, e solo anni dopo seppi con dolore che la “questione omerica” è una querelle ancora aperta, tanto che c’è chi afferma che non esistette mai un Omero in carne e ossa. Misi quei versi accanto allo sceneggiato televisivo che a puntate qualche tempo prima aveva immerso anche una bimba di pochi anni nelle storie di Odisseo, e al film con Kirk Douglas che ancora oggi mi fa sognare, con quella Circe maliarda dai capelli celesti interpretata da Silvana Mangano, attrice che era anche, come in un alter ego della famosa maga, la fedele Penelope. Odisseo e il cavallo, Odisseo e lo stratagemma di chiamarsi Nessuno (nella lingua greca le due parole si assomigliano terribilmente), Odisseo e la discesa agli inferi, Odisseo e l’arco che solo lui poté tendere per scagliare una freccia che vola precisa attraverso i bersagli. Chi mai potrebbe eguagliare tutto ciò? Come un filo conduttore, poi, questo Omero non solo mi ha spiegato cos’è il sublime con un esempio pratico, ma mi ha condizionato, dalle radici. Ho scelto studi classici fino alla laurea e, quando ho dovuto scegliere la tesi, l’ho scomodato ancora. E adesso, in biblioteca, tutte le volte che mi trovo a passare davanti agli scaffali dei classici, mando a quei volumi un timido saluto, ai miei poemi preferiti che riposano su quelle scansie, in attesa che altre mani e altri occhi li vengano a scoprire. E si tuffino nella vastità del sublime.