Da poco è uscito un libro di Fabio Genovesi dal titolo Il calamaro gigante. Edito da Feltrinelli. devo dire che ci sono rimasta di stucco, anche io scrissi un racconto con questo titolo, molto prima del nostro rinomato autore, e di seguito lo ripropongo. Esprime chi sono, il mio amore per la natura, sia essa montagna o sia mare.
Il Calamaro gigante: dialogo di due pescatori erranti nella baia
Porto di Rimini, una sera d’estate. Una panchina solitaria di fronte al molo. Risacca sugli scogli lievemente battuti dall’acqua. Un lampione dalla luce giallognola. Due anziani signori, seduti in quella beatitudine, ascoltano i rumori lontani del lungomare e, a tratti, fumano interminabili pipe.
Sono Guido e Alfonso, vecchi pescatori che non riescono a stare lontani neppure un attimo da quell’odore pungente e da quel rumore di onde che vanno e vengono.
Ad un certo punto Guido, il più temerario dei due, tossicchia per schiarirsi la voce, poi incomincia a parlare:
Guido: – Bella, questa serata, vero? Non tira un filo di vento sul mare. Eppure in lontananza vedo alcune nubi scure, se la vista ancora non mi inganna.
Alfonso: – Sempre pessimista, eh? Io non vedo nulla. È tanto buio… E poi a noi cosa può interessare se arrivano pioggia e tempesta… Noi che ormai siamo lupi di mare in panchina, marinai più attaccati alla terraferma di un cespuglio di rovi? Anzi, questa serata umida e tranquilla mi dà un senso di pace, mi sembra che d’un tratto il tempo che ci ha separati dalla giovinezza non sia mai trascorso. E quella luna… sempre beffarda e impicciona, con la sua grande faccia a rotella! Ho sempre viaggiato sul mare, una intera vita, e quante volte l’ho guardata, unico punto fermo in un fluttuare di ogni cosa, in quel liquido mondo. Quanto ho viaggiato… eppure con il cuore non mi sono mai mosso di qui, da questa città in cui sono nato. Tutti gli altri luoghi non erano che porti, scali momentanei, intermezzi senza importanza tra due ritorni. Non lo pensi anche tu?
Guido: – No, io sono stato tanti anni lontano. Anch’io sono nato in una casa da cui, dalla finestra, si vedeva l’azzurra distesa. Poi, dopo i veloci anni dell’infanzia, me ne sono andato via, in montagna. Il mare però è rimasto sempre dentro di me, come un organo vitale da cui non puoi separarti. Non solo… ora che mi ci fai pensare, mi ricordo una volta che…
Alfonso: – Non incominciamo con i ricordi di gioventù!
Guido: – Beh, è una storia davvero interessante, ma se non vuoi sentirla… E, del resto, cosa abbiamo da fare di più importante?
Alfonso: – Anche questo è vero. È troppo presto per tornare a casa, troppo caldo per mettersi a letto. Va bene, ti ascolterò.
Guido: – Quando ero giovane volevo comperarmi una barca e, per poter mettere da parte tutti i soldi necessari, accettai un lavoro in montagna. Partii senza stare troppo a pensarci. Erano zone aspre allora, gli Appennini, ma in un certo senso non tanto diversi da qui. Tutte quelle curve sulle strade non erano differenti dalle onde che ti facevano cambiare direzione ad ogni attimo, e poi il mal di montagna è simile al mal di mare, una nausea che prende allo stomaco solo di chi non è abituato ad essere in balia degli elementi, una vertigine che porta su… e poi giù fino ad una meta che non è mai nella direzione in cui si pensava di arrivare. L’azzurro di quei cieli poi… niente a che vedere con la nebbia della pianura, un azzurro di acqua salmastra, di rocce lontane che sembrano cavalloni.
Ebbene partii, solo e senza nulla in tasca. Lavoravo sodo, sai, in quella miniera di carbone. Ma, non appena mi restava un briciolo di tempo, uscivo ad esplorare zone nascoste di quei luoghi e a pensare.
Alfonso: – Mi sembri un filosofo, mi sembri!
Guido: – Insomma, un giorno che passeggiavo per i sentieri io, uomo del mare in mezzo ai monti, mi ricordai che a scuola mi avevano detto che, tanti milioni di anni fa, dove ora ci sono le montagne, c’era il mare. Spesso si trovano fossili di conchiglie, di ossa di squali, lassù, testimonianze di quell’antico mare, ora pietrificato.
Alfonso: – Interessante questa cosa del mare sui monti… non sembra proprio possibile.
Guido: – Invece era così. Ed io passeggiavo alla ricerca frenetica di qualche oggetto amico, qualche residuo di spiagge senza orme di esseri umani, spume in cui avevano nuotato cetacei scomparsi nel nulla, intrappolati da sconvolgimenti incredibili della crosta terrestre, quando…
Alfonso: – Continua…
Guido: – Vidi ad un tratto una specie di corda bianca, dalla consistenza molle, liscia come la pelle di un bambino e spessa come un braccio, una corda di cui una estremità era adagiata su un grosso sasso e l’altra invisibile poiché la corda continuava a snodarsi in terra a perdita d’occhio. Non so cosa mi suggerì di seguirla, ma lo feci incuriosito. La traccia mi portava sempre più lontano dal sentiero e, ad un certo punto, piegava verso un anfratto nel terreno scendendo verso le viscere della terra. Entrai in quell’antro che scendeva verso il basso in un sentiero sempre più buio, sempre seguendo la corda che appariva fosforescente e nitida nell’oscurità, intimorito ed incuriosito al tempo stesso.
Alfonso: – Questa storia è sempre più interessante… Però, che umidità!
Guido: – Mi sembra di riviverlo ora che ti parlo… continuavo a scendere con l’odore di terra che a poco a poco si trasformava in un profumo vecchio e conosciuto. Era profumo di salsedine che mi invadeva le narici, pungente e spumeggiante, con quella punta di odor di pesce che tutti coloro che sono nati in una baia conoscono. Era proprio quell’odore che mi impediva di aver paura e mi invitava a procedere sicuro nella mia avventura. E d’un tratto… il cunicolo s’allargava in una grotta sotterranea molto ampia, lucente di una luce di fosforo, fredda ed abbagliante.
La grotta era ampia ed umida, agghiacciava per il freddo che vi faceva, ma la luce mi permetteva di vedere con chiarezza che era occupata per intero da un enorme calamaro gigante mollemente adagiato a terra. Lo circondavano frotte di pesciolini stranissimi, fisionomie estinte, musi arcaici ma non minacciosi che guizzavano in quella strana atmosfera.
Restai un attimo stranito, feci per tornare indietro, poi… il calamaro mi rivolse la parola. Non so come potesse parlare o come io potessi capire i suoni che emetteva. Fatto sta che ci capivamo. Mi chiese che pesce fossi, gli spiegai che ero un uomo, specie che, mi assicurò, non aveva mai visto.
“Caro essere umano, o cosa dici di essere. Noi siamo creature del misterioso mare. Nuotavamo in grandi volumi scuri di acqua salata quando, d’un tratto, qualcosa successe: un tremore, un brontolio, e poi il fondale che fino ad allora era rimasto tranquillo sotto di noi si sollevò, toccò le nostre pance, la terra ci avvolse, l’acqua scivolò via, lontana, inafferrabile e ci ritrovammo qua, al buio, io e questi pesci, ed al freddo. Fortunatamente eravamo in grado di emettere luce con i nostri corpi e così facemmo, rischiarando la spelonca, in ascolto ed in attesa di cosa sarebbe successo in seguito. Ma fu il silenzio. Nulla più accadde.
Da allora aspettiamo che il mare ritorni da noi, nascosti in questa umidità tranquilla da tempo immemorabile.”
Alfonso: – Così ti disse il calamaro? Difficile da credere.
Guido: – Sei libero di pensare ciò che vuoi, forse non ho più voglia di dirti nulla, a te che sghignazzi come se fossi rincitrullito.
Alfonso: – Su, non scaldarti: questa storia, vera o no, mi piace.
Guido: – Il calamaro continuò a parlare, mi chiese se il mare esisteva ancora o se dappertutto c’erano rocce e terra come in quel posto. Gli dissi che il mare c’era, certamente, ma molto lontano da lì.
“Tornerà, un giorno, ne sono certo, e noi lo aspetteremo” sussurrò in un fruscio di piccole pinne.
“Certo che tornerà, gli scienziati dicono che i ghiacciai dei monti si scioglieranno e la pianura diventerà il fondo del mare mentre quassù ci saranno baie e coste come in un tempo lontano. Questo però accadrà fra tanto, tantissimo tempo, secoli, millenni, forse più tempo di quello che avete atteso. Non so se potrete resistere tanto” gi risposi io con amaro realismo, senza mezzi termini.
Il calamaro stette un bel po’ in silenzio, mosse lentamente i tentacoli come per pensare il da farsi, poi, sicuro, rispose: “Dobbiamo tornare al mare al più presto. Potresti accompagnarci tu, puoi farlo?”
Come potevo? Il calamaro da solo pesava almeno mille chili, più tutti quei pesciolini che non stavano fermi un momento. Balbettai qualcosa, ma il calamaro non mi lasciò continuare: “Noi potremmo perdere tutta la nostra acqua, perdendo anche gran parte del peso e del volume. Io diverrei così simile ad un vecchio tronco rinsecchito e questi pesci non sarebbero più ingombranti di un mucchietto di foglie appassite. Potresti, in tal caso, prenderci con te. Se sai la strada per il mare non sarà lungo né difficile il tuo viaggio. Per piacere, portaci là”.
Titubai, ma, mentre mi guardavo intorno, vidi la trasformazione repentina del calamaro che perdeva tutta l’acqua contenuta nel suo corpo. Diminuiva di volume a vista d’occhio e il suo colore si scuriva sempre più.
In pochi minuti ebbi di fronte un vecchio tronco rinsecchito ed un mucchietto di foglie marroni, simili a quelle del castagno.
Avevo con me una grande sacca da marinaio. La svuotai del contenuto e vi stipai le foglie, avendo cura di non lasciarne nessuna. Chiusi accuratamente l’imboccatura e mi caricai sulla schiena il sacco e il tronco, che non pesava poi tanto.
Alfonso: – Hanno acceso il faro, si sta facendo tardi e l’umidità mi impregna le ossa. Domani avrò i reumatismi.
Guido: – Se vuoi vai pure a casa, a rigirarti fra le lenzuola nella calura del tuo seminterrato.
Alfonso: – Eh no, caro mio, ora la storia me la finisci! E tira innanzi senza tanto soffermarti sui particolari.
Guido: – Abbi pazienza, vecchio brontolone.
Dove ero rimasto? Ah, sì. Camminai fino a vedere di nuovo la luce del sole, e poi giù, per il sentiero, tagliando in alcuni punti, affrettandomi per essere a valle prima di sera. Ero agile allora, ed il fardello che portavo non rallentava il mio cammino.
Arrivai al paese che l’ultima corriera era partita, così mi sdraiai su una panchina, guardando le stelle. Non ricordo che stagione fosse, ma doveva essere primavera inoltrata, o autunno, perché non ebbi affatto freddo e c’era un bel sereno. Le stelle brillavano in cielo con una festa di luci mobilissime. Non so se riuscii a dormire, ma ricordo una sensazione di estremo benessere, di serenità. E pensai a quei secoli trascorsi ad aspettare, a quei millenni protetti dal ventre della terra aspettando il mare.
Al mattino fui destato dal rumore delle prime auto. Ce n’erano molto meno di oggi, a quei tempi. Mi alzai in piedi, controllai il mio prezioso carico e poi attesi la corriera, la prima del mattino, che serpeggiava verso la città.
Il conducente non volle far salire il tronco, perché gli sporcava i sedili. Lo misi nel portabagagli assieme al sacco, non senza una certa apprensione. L’autista mi prese per uno di quegli artisti originali che trovano qualche bacchetto in campagna e lo vogliono trasformare in un quadro o una scultura e non mi diede troppa confidenza. Restammo in silenzio per l’intera corsa, anche se ero l’unico passeggero.
A Bologna la stazione era grande e grigia. Scesi scivolando giù verso lo sportello che mi restituiva il sacco ed il tronco e mi incamminai verso i binari.
La gente che mi vedeva passare pensava che fossi un barbone un po’ matto o un artista di strada che cerca di attirare l’attenzione girando con qualche stranezza addosso e poi si ferma in uno spiazzo a fare il suo spettacolo. Qualcuno, incuriosito, mi seguiva per qualche passo ma poi, vedendo che non facevo alcuna esibizione, se ne andava deluso per la sua strada.
Alfonso: – Belle figure, hai fatto. E tutto questo per un fossile vivente?
Guido: – Non so, infatti perché mi stessi dando tanto da fare. Non so proprio. Eppure sentivo che era per me una missione come scoprire la Luna, che a quei tempi era ancora inarrivabile per gli esseri umani, come se stessi aiutando l’umanità in una scoperta scientifica, nella sua stessa salvezza dall’estinzione imminente.
Salii sul treno. Era affollato e temetti che il tronco perdesse qualche ramo nella calca. Così restai vicino all’uscita, in quella nebbiosa mattina, appoggiando il tronco alla parete e restando tra lui e le persone che passavano. Tante fermate, il treno si svuota, ed ecco Ravenna.
Da lì al mare sono pochi chilometri. Non c’erano mezzi per raggiungerlo, allora, fuori stagione. Non mi restava che camminare.
Superai l’enorme porto, con tutti quei giganteschi macchinari metallici, come fantasmi avvolti nel fumo dei comignoli. Camminavo lentamente poiché il mio carico era prezioso. Ero riuscito a portarlo fin lì ed ora… mancava davvero poco sforzo per arrivare.
Da quando si era trasformato il calamaro non aveva più parlato. Avevo agito di testa mia, di puro istinto. Ora stava incominciando a piovere. Il carico, che si bagnava a mano a mano, riprendeva vita e peso e diventava sempre più difficile da portare. Il Calamaro allora ricominciò a parlarmi: “Presto, presto” diceva, “mi manca il respiro, tra poco riprenderò, bagnato da questa acqua, il mio peso normale, devo avere una distesa di mare in cui inabissarmi.”
Correvo, arrancavo. I tentacoli oramai toccavano terra, me li trascinavo dietro come strascichi di un mantello. Sentivo i pesciolini guizzare impazienti nel sacco. Per fortuna le strade erano deserte, nessuno mi vedeva, e la nebbia, in quel caso, era una preziosa alleata.
Arrivai alla riva. C’era una barchetta ormeggiata al molo. Vi caricai tutti i miei ospiti e mi sedetti di fronte agli scalmi. Fissai i remi. Ne ero capace, ero nato o no al mare? Fin da piccolo ero uscito in barca, nuotavo e remavo molto bene. La barchetta scivolava sull’acqua increspata dalla pioggia, pendendo da un lato sempre più. Il calamaro era ormai tornato alle dimensioni originarie ed i pesciolini facevano sobbalzare il sacco. Dopo alcuni minuti eravamo lontani dalla costa quanto bastava. Mi fermai ed adagiai i lunghi remi sul fondo della imbarcazione. Respirai l’aria salmastra. Chiesi al calamaro: “Sei sicuro? Il mare è pieno di pericoli per voi, se vi scopriranno avranno paura e vi uccideranno. I pesciolini potrebbero venir mangiati, tu tagliato a fette sottili.” Ero rammaricato di averli esposti a questa vita di continue lotte, quasi pentito di avere acconsentito a portarli lì. Il calamaro invece era tranquillo, godeva della presenza del mare e mi fece cenno di farlo scivolare giù. Non fece rumore, si inabissò subito e scomparve alla vista. Allora svuotai il sacco senza lasciarvi un solo esserino all’interno. Anche i pesci non ci misero molto a nascondersi nelle profondità sicure. Sentii un’ultima, debole voce: “Quando il mare tornerà alla montagna, allora anche noi saremo di nuovo là”.
Alfonso: – Pensi che manterranno la promessa?
Guido: – Credo proprio di sì. In fondo il mare e la montagna sono una cosa sola. Io sono tornato qui, alla mia casa, dopo anni che mancavo, ed è stato come se non mi fossi mai allontanato. Come il calamaro ho due case: le onde sono come le curve dei sentieri, l’azzurro delle montagne assomiglia ai cavalloni in tempesta che rotolano scuri.
Forse è qui che ci rivedremo, forse invece è là, tra le rocce, dove il mare sembra tanto lontano e non lo è.
Alfonso: – Sì, ma ora andiamo a casa a dormire, le barche stanno uscendo per la pesca. Domani avremo entrambi il mal di ossa.