Alice Coachman insegnò che allo sport non interessa il colore della pelle. La sua è una storia un po’ triste e un po’ allegra, ma degna di essere narrata.
Alle scuole superiori mi facevano partecipare ai Giochi della Gioventù. Solo perché ero alta e avevo lunghe gambe sottili, la prof di educazione fisica si era messa in testa che potessi gareggiare nel salto in alto. Ero una vera frana, e quando vedo le foto dell’incredibile salto alle Olimpiadi di Alice Coachman Davies provo ammirazione e incredulità, non mi pare possibile che una ragazza possa oltrepassare l’asticciola posta a 1 metro e 68 di altezza con tanta naturalezza e con un salto ventrale. Eppure quel salto congelato in un’iconica foto non spezzò i pregiudizi, non disgregò il muro che ancora c’era fra bianchi e neri.
Alice viveva ad Albany in Georgia ed aveva nove fratelli. Essere una ragazzina nera nata nel 1923 in uno Stato del Sud, quello dove fu ambientato Via col vento non era per niente facile. Le piaceva lo sport, ma, in quegli anni, là dove viveva non c’erano molte opportunità per lei.
Alice fin da piccolissima correva a perdifiato, si lanciava con le ginocchia quasi al petto nei campi coperti di erba, sulle strade non asfaltate. Quando correva e saltava si sentiva potente e libera, l’energia le saliva dalla pancia fino alle spalle, alle braccia, le inondava di calore le mani. Suo padre, uno stuccatore di origini inglesi, le ripeteva quello che sapeva alla perfezione: che essere donna ed essere di colore le avrebbe impedito di farcela.
Furono un insegnante in quinta elementare e una zia a sostenerla. Alice non poteva allenarsi sulla pista d’atletica, quella era per i bianchi, lei correva sui sentieri sterrati, sui campi, saltando i fossi a gambe divaricate, spesso senza neppure portare le scarpe. Dovette attendere fino al 1948 per competere alle Olimpiadi: le due precedenti edizioni non si erano disputate, a causa della guerra. Era il 7 agosto, Londra si mostrava piovigginosa. Lo Stadio di Wembley era gremito da oltre ottantamila spettatori.
Il pugno in avanti, una perfetta sforbiciata delle sue gambe tornite, Alice Coachman, volando quasi parallela all’asticella posta a 1 metro e 68 centimetri da terra, la supera e atterra sulla sabbia. Ha stabilito il nuovo record olimpico e il primo oro olimpico per una donna di colore. Alice si alza, punta lo sguardo sulla sua allenatrice, che applaude raggiante, e capisce che ce l’ha fatta. Sale così, ancora incredula, sul gradino più alto del podio, a cantare l’inno statunitense mentre re Giorgio VI le mette al collo la medaglia.
Ma quella patria americana cui ha dato soddisfazione non le restituisce l’affetto e la stima. La gente semplice l’attendeva con un corteo al suo ritorno a casa. Durante la cerimonia ufficiale, però, bianchi e neri vennero messi a sedere in zone separate, a dimostrare che neppure una vittoria alle olimpiadi avrebbe spazzato via le regole della segregazione razziale. Il sindaco della città non le strinse la mano e alla fine Alice dovette uscire da una porta laterale.
Fu per lei il canto del cigno; si ritirò dedicandosi all’insegnamento e ad aiutare giovani atleti in difficoltà. Solo nel 1996 ad Atlanta fu riconosciuta come una delle 100 più grandi olimpiche della storia. Alice Coachman insegnò che allo sport non interessa il colore della pelle.