Diceopoli negli Acarnesi parla delle guerre di ieri per farci capire quelle di oggi. Come? Immaginate un quartiere, un sobborgo di una grande città, come il Bronx a New York, oppure Scampia a Napoli, o Braida a Sassuolo; un quartiere sovraffollato di infimi alloggi aggrappati gli uni agli altri, tane di gente povera e male in arnese piena di rabbia e rancore e che spesso si trova a scegliere la guerra o la guerriglia semplicemente perché è una questione di onore odiare qualcuno. Questa zona tentacolare e disperata, questa periferia appartiene a tanti anni fa e si chiama Acarne, figuriamocela popolata da figuri sanguigni e disposti a sopportare ogni male in nome di una guerra giusta contro gli odiati nemici che in quel caso erano gli Spartani. I raccolti vengono distrutti, le masserizie saccheggiate, ma nessun sacrificio è troppo grande in nome dell’onore. Così la guerra scoppia, monta, impazza, addenta la prosperità, la divora, il tempo passa e quel combattere che viene prima di ogni altra cosa si fa azione fine a se stessa e nessuno, neanche i più anziani, si ricordano più il perché lo si fa; le famose “cause” di Tucidide sono svaporate nella notte dei tempi. E da questo scenario prende vita una commedia che ha oltre duemila anni, ma che non risente certo della sua veneranda età, una delle più belle e riuscite difese della pace che la letteratura antica ci ha regalato: Gli Acarnesi di Aristofane.
Dalle quinte emerge un personaggio claudicante e cencioso, un umile lavoratore che si è stancato di vedere il frutto delle sue braccia finire nel ventre dei soldati e gli sorge spontanea una domanda: cui prodest? (perdonate se ho preso a prestito una frase latina per far parlare un Greco; nella nostra lingua madre comunque si può tradurre “chi ne trae vantaggio?”).
Quest’uomo semplice e schietto è Diceopoli, chi conosce un po’ di greco ginnasiale facilmente coglierà l’etimologia del nome: “città giusta”.
Qual è la vera giustizia? Per comprenderlo bisogna fare una valutazione capillare delle origini di questa guerra combattuta con i vicini di casa; l’unico modo per poterla definire “guerra giusta” è che essa abbia “cause giuste”.
Il sarcasmo a questo punto diviene feroce poiché il povero carbonaio, in un monologo in cui rompe la finzione scenica e si rivolge direttamente come umile personaggio al pubblico di Ateniesi che lo sta guardando in teatro, dopo aver giustificato se stesso rassicurando l’uditorio che nessuno straniero lo udirà e che quella verità è svelata solo ai cittadini (infatti la rappresentazione degli “Acarnesi” fu fatta in occasione delle feste dette “Lenee” a cui partecipavano solo Ateniesi) narra senza mezzi termini la sordida vicenda dell’inizio di quel nobilissimo conflitto.
In pratica il fatto andò così: due cittadini di Megara rapirono due prostitute della gioiosa casa di Aspasia (amante di Pericle, uomo politico di spicco che all’epoca dei fatti era morto da tempo) scatenando l’ira degli Ateniesi che non potevano sopportare l’onta di restare inerti a guardare un tale ratto compiuto a scapito delle proprie “oneste” fanciulle. Siamo in presenza di una nuova guerra di Troia, decennale e sanguinosa lotta causata, anche quella, da una donna e ai suoi capricci. Diceopoli parla di un combattimento che porta lutti e povertà, iniziato per vendicare nientemeno che due donnacce!
A questo punto il riso e il pianto si sovrappongono: quale onore, quale giustizia può rappresentare una tale guerra? Erodoto era contrario alla guerra, a favore della pace. Durante la pace i figli seppelliscono i padri, nei periodi dei conflitti i padri seppelliscono i figli, diceva con una logica lampante che ciascuno può comprendere. Lo storico dimostrava come il tempo di guerra stravolga la natura, capovolga l’ordine logico delle cose. Diceopoli non è così filosofo né così disinteressato, non parla in nome dell’erudizione ma delle ragioni del suo ventre vuoto, egli vede solo il perpetrarsi di un conflitto assurdo che gli porta via quello che è suo e lo costringe a un’esistenza di stenti. La soluzione? Fare una pace privata, solo sua, con il nemico. Agli oscuri interessi di corrotti uomini politici antepone così il proprio utile: la sua casa diviene un porto franco dove tutti possono commerciare con tutti. Una piccola oasi di pace e prosperità, di fratellanza non mirata ad un amore panico del genere umano, ma ad una temporale agiatezza e alla possibilità di vivere tra i piaceri più immediati della vita.
Così Aristofane, l’autore della commedia, celebra la pace per bocca di un pover’uomo che festeggia e mangia cibi deliziosi restando ozioso fra le braccia di belle e generose fanciulle, contro la guerra che il generale Lamaco deve affrontare, fra fame, freddo, veglie. Chi è il traditore? L’uomo che rifiuta una guerra assurda o quello che la fronteggia in nome del proprio vantaggio personale sacrificandole anche vite che non gli appartengono? Quando lo stratega compare, esile larva degli eroi omerici, con quell’armatura fin troppo sfavillante e lo scudo che oggi, con un termine moderno potremmo definire kitsch, Diceopoli ha un conato di vomito, la nausea lo opprime. Un duro colpo per colui che si credeva l’erede di Achille e Agamennone, giovane dalla brillante e rapidissima carriera dalla quale il rozzo e sudicio popolano non si lascia ingannare. Il suo cervello fa somme semplici, ma lampanti e rigorose: nell’esercito ci sono chiome bianche a servire come soldati ordinari, mentre i giovani inesperti e boriosi comandano. È forse qualche straordinaria capacità che fa loro occupare quelle posizioni di rilievo? Domanda retorica. Lasciamo il carbonaio ai suoi grassi e meritati festeggiamenti e indugiamo per un attimo su una riflessione: se ai tempi della Grecia classica le guerre erano combattute in onore di motivazioni futili, possono al giorno d’oggi esistere guerre giuste? Vi sono motivi validi, ideali tanto assoluti per cui un uomo possa uccidere un altro uomo? Lamaco si avvia verso il campo di battaglia dove tanti corpi spargeranno sangue, la sua armatura sferraglia come un convoglio pieno di niente. Dall’altra parte della barricata troverà una stessa armatura, una simile spada, idee diverse da difendere. Oggi non ci sono più armature, neppure spade o cimieri, ma le guerre sono rimaste le stesse, carneficine insensate in cui ad ognuno sfugge il perché.
Qualche anno dopo, lo stesso Aristofane metteva in scena La Pace, in cui il vignaiolo Trigeo (ancora una volta un personaggio umile) si incarica di recuperare, a cavallo non di un ippogrifo ma di uno scarabeo stercoraro, la dea Eirene (la Pace, appunto) tenuta rinchiusa da Polemos, la Guerra, in un antro oscuro. L’impresa avrà successo e tutti potranno festeggiare un nuovo tempo di prosperità. Ancora una volta il buon senso trionfa e mette in risalto l’assurdità di una scelta diversa: un pensiero lineare che però ancora, dopo che tanta acqua è passata sotto i ponti, fatica ad essere compreso. Sarà solo un caso che, nell’antica statua allegorica, Eirene tenga in braccio Ploutos, la prosperità?