Maja Einstein. Monologo sulla vecchiaia

Pubblico un racconto intitolato Non avevo le ruote in cui Maja Einstein, protagonista del romanzo “La musica dell’universo”, pronuncia, in attesa del ritorno del fratello, un monologo sulla vecchiaia.

Il monologo è pronunciato nel 1950 da Maja quando si trovava in esilio a Princeton, nella villetta del fratello, e, già malata e vinta dall’amarezza della lontananza dalla sua casa e da suo marito Paul, si era imposta una prigionia e un isolamento forzati, circa un anno prima della morte.

 

Albert, mio fratello, dovrebbe arrivare a momenti, di solito alle sei di pomeriggio, quando le lancette fanno quella bella spaccata, mi metto davanti alla finestra, un po’ nascosta dalla tenda, e punto gli occhi al fondo della via. Sono attimi con un senso, dopo ore insulse e vuote, attimi ciascuno con una sua fisionomia, un carattere. Vedete? Proprio laggiù dove la strada fa una curva ad angolo e si tuffa nei muri colorati di una gelateria, da lì spunterà la sua silhouette nera, ma non prima che siano trascorsi tutti quegli attimi, uno dopo l’altro.

 

Il primo attimo è quello dell’insegna al neon del ristorante che si accende e si spegne, si accende e si spegne. Ne conto una ventina, di queste intermittenze, indi sposto lo sguardo là al crocevia, dove c’è un semaforo che si fa verde, arancione, rosso, ed ecco il secondo attimo. Quello, appunto, del semaforo. Ogni tanto chiudo gli occhi e cerco di indovinare di che colore sarà la lucina quando li riaprirò di scatto. Se è verde andrà tutto bene. Poi c’è l’attimo dell’impazienza, che mi fa misurare ancora e ancora il perimetro di questa stanza, infine, quando la cara sagoma sbuca e procede verso di me, incomincia quello di una effimera e indistinta gioia, insieme alla paura che, al suo apparire, qualcosa della vera me gli si sveli. Così ho ancora un attimo, uno soltanto, per vestire i panni della parte che ogni sera devo recitare.

 

Fatemi compagnia, oggi, condividete questi attimi con me. Potrei raccontarvi una storia, nel frattempo. Vediamo… Solitamente, quando mi trovo di fronte qualche faccia che mi guarda, vado alla ricerca di una storia da narrare. Una qualunque, che soccorra con le parole un silenzio che scava troppo nell’anima. Potrei cominciare a infilare un vocabolo dietro l’altro nel filo della collana e così distogliere quelle facce e quegli occhi dall’impietosa osservazione del mio corpo oramai informe e pigro, la pelle giallastra, i capelli stopposi e opachi. Non mi guardo mai allo specchio, perché nessuna delle cento volte morta e rinata Maja è quella che scorgo là, osservarmi sprezzante e caduca dall’altra parte di quella superficie sottile.

 

C’è un certo disorientamento, in questo continuo cambiare fisionomia, desideri, timori, affetti nell’arco di una sola vita, ma è sopportabile se l’anima se ne sta dentro, senza guardare il suo involucro. Quando, anche per caso, ci imbattiamo nell’immagine di noi stessi, nella stagliata e precisa figura intrappolata nel fluire del tempo e che è la stessa con cui gli altri in quel momento ci vedono, la cosa ci smarrisce. Ebbene, vediamo di trovare una storia, per incantare l’imbarazzo del silenzio, per riempire il vuoto… Niente da fare, per quanto frughi nella mente, oggi non ne esce neanche una storiella piccola piccola. Niente!

Qualcuno può suggerire? Lei, signore, o forse lei? Nessuno?

 

Il fatto è che la memoria è ubriaca, rimpinzata quasi a scoppiare, i ricordi si mischiano, girano e imbiancano le loro tinte, gli eventi si schiacciano, non hanno sequenza temporale, non posseggono un posto preciso nella fila. Tutta una giostra, una centrifuga, una confusione che non porta a nulla di buono…

 

Immagini, oh, di quelle ne sbucano tante, luoghi, ambienti, fisionomie, volti, accompagnati dal suono di risate, richiami, abbracci, sorrisi. Quelli dell’infanzia sono i più nitidi e colorati. “Majaaaa… Maja….!” Mi pare di udirlo mio fratello Albert, quando era ora di cena, e non mi trovavano mai, così lo mandavano a cercarmi. Il mio fratellone, quella quercia così salda, la sua mente che sapeva intrappolare i sogni, li appallottolava, così… e diventavano… anzi diventano ancora, teorie scientifiche, grandi passi avanti per l’umanità intera. Solo un sognatore come lui può avere quel folle coraggio di innovare, di guardare nel profondo dei sogni e scoprire in quel marasma un barlume di verità. Io non avevo il suo talento, non ho mai saputo sognare così bene, la mia speciale capacità era nascondermi. Lo facevo con tanta perizia che sembravo veramente invisibile.

 

E nostra madre, Pauline, lo mandava in giro per le stanze a stanarmi. Com’è bello non essere visti. Ecco, ora se fossi trasparente potrei tirare la barba a quel signore in terza fila, levare il cappello (un bel cappello, indubbiamente) alla donna elegante in quinta, sciogliere il nastro a quell’altra signora un po’ distratta, e loro si adirererebbero, e diventerebbero verdi dall’ira. Ma non potrebbero farci nulla. Perché sarei invisibile. E invece la magia non mi riesce più, so che mi vedete, eccome se mi vedete, mentre io non mi vedo, ho questa grazia dalla mia e mi illudo di essere ancora dotata dell’aggraziato aspetto di ragazza. Un po’ bizzarra, forse non esattamente bella, eppur a suo modo graziosa, con folti capelli neri e gli occhi vivaci, come in quella vecchia foto. 

 

Mio fratello, di due anni più grande, voleva ridarmi indietro quando nacqui, non gli piacevo perché, diceva, non avevo le ruote. No, caro Albert, Maja non aveva le ruote, né mai le ha avute; era (a differenza di te che viaggiavi in mondi distanti anni luce) un essere stanziale, senza la stoffa dell’esploratore o del pellegrino. Ed ora eccola qua, la vecchia Maja Einstein, costretta a viaggiare attraverso l’oceano, fuggita per non essere catturata dall’odio. Per sottrarsi a un insensato olocausto che, pur avendola risparmiata, l’ha decretata straniera nella sua terra. Sono libera.

 

Ma libera di cosa? Di stare intrappolata un milione di miglia lontano, in una villetta anonima, in una cittadina asettica, progettata in serie, verniciata di colori che neppure sembran veri. Sorrisi gommosi, occhiate di schiuma. Automobili dalle tinte ridicole, troppo lunghe e ingombranti.  

 

Albert al mattino, qui a Princeton, esce di buon’ora e cammina, con quelle sue caviglie nude che sbucano dai pantaloni abbondanti, e sono l’unico particolare che mi resta nello sguardo, man mano che si allontana e si trasforma in una macchia ondeggiante. Caviglie pallide, eleganti, sottili come i garretti di un cavallo, che fan dentro e fuori dalle scarpe eccessivamente larghe. Procede con le punte dei piedi divaricate, piega sin troppo le ginocchia e fa oscillare il braccio sinistro, mentre il destro contro il petto stringe una cartella di pelle nera più vissuta di lui. Chissà che segreti contiene. Con sollievo lo guardo andar via, perché quando non c’è posso abbandonare la veste di gratitudine, la falsa gioia, la forzata serenità.

 

Posso, in un istante, far sciogliere come una pastiglia effervescente quel finto sorriso e trasformarmi in una vecchia malata e rassegnata, un’esule, un’estranea quale sono in questa insulsa cittadina americana. Non c’è un posto al mondo ormai che mi rassomigli, non esiste un angolino che io possa considerare casa. Mi abbandono sul divano, assalita da tutte quelle immagini stipate dentro di me, le lascio vagabondare, danzare al mio cospetto, non le combatto. Samos, la mia cascina nelle campagne di Firenze, ora di certo trasformata in un rudere muffoso invaso dall’edera dove nessuno forse mai abiterà. Magari è una fortuna che io mi trovi a miglia di distanza, mi farebbe troppo male esser là, assalita dai ricordi di attimi vissuti con tutte le persone che non ci sono più. 

 

Vedo Fritz, il mio amico, giovane poeta amante del Petrarca che a un tratto vestì una divisa della Wehrmacht e sposò una causa non sua, infine caduto sul fronte occidentale con una raffica al petto. Aveva zigomi alti e le labbra un po’ tumide perennemente protese, come se sopra vi si fosse posato un pensiero, o meglio un dubbio. Teneva le palpebre a fessura, e in quello spiraglio lampeggiava un azzurro così limpido da ingannare. Oh, gli volevo bene come a un figlio, a Fritz, tanto che mio marito Paul, che non capiva, ne era geloso. Poi d’un tratto Fritz si mise a odiare gli ebrei, a guardarmi con sospettoso cipiglio, infine partì per andare in guerra, e io che non riuscivo a comprendere quel rapido mutare, lo attesi a lungo, sperando di vederlo ancora una volta spuntare con le falcate delle sue lunghe gambe sul vialetto ghiaioso, con la giacca che svolazzava sui fianchi stretti e ossuti, le mani infilate nelle tasche dei calzoni, il ciuffo nerissimo, impomatato, che un vento capriccioso scollava dalla fronte. 

 

E mi appare Cicì, Annamaria, la nipotina un po’ civettuola, fucilata nella sua stessa casa con la mamma e la sorella Luce. Riccioli biondi e le fossette sulle guance di una tiepida carne tutta nuova. C’era un dipinto, del pittore Staude. La bambina correva, e correva, e il nastro si scioglieva, cadeva a terra, il cane lo pestava. Era entrata, la piccola Cicì, in quel quadro, vi si era intromessa arrampicandosi dal lato ridente, gioioso, picchiettato a tinte gaie, ma poi si moveva verso quello opposto della tela che via via si faceva oscuro e fosco, fino ad imbattersi in quella vecchia tutta curva, una megera sdentata che pareva proprio il ritratto della morte.

 

La vecchia aveva afferrato quasi in un sacrilegio Cicì per quei suoi riccioli sciolti, una manciata color grano nella mano adunca, rugosa, scabra e sudicia. E dopo più nulla, il suo corpo acerbo immobile, in un mucchio insieme a quello della mamma e di Luce, sul pavimento lucido del salotto, falciate da una sventagliata di mitraglia, adagiate in una pozza di sangue. Mio cugino Robert, l’ingegnere inflessibile, suo padre, si tolse la vita col veleno per il dolore nel giorno dell’anniversario di matrimonio. Era estate, ricordo che infuriava un tremendo temporale quando lo trovarono chino sul tavolo col bicchiere stretto nella mano.

 

Mi volto di scatto, mando via quel pensiero, mi fa troppo male. E allora la mente disegna un cerchio perfetto, come quello di Giotto. Lo colora dentro tutto di celeste. L’oblò della nave, un vetro tondo tondo e vi appiccicavo il naso e le dita, chissà che faccia buffa vedevano i pesci, una faccia tutta schiacciata, spappolata, con un grande naso sfrittellato. Ci ho passato giorni, a toccare quell’oblò, a guardare un panorama che non cambiava, e mare e mare e ancora mare… E arrivando nei pressi del porto, la Statua della Libertà di là sotto non si vedeva, scorgevo solo le bitte arrugginite del molo farsi sempre più gonfie. New York, l’America, nulla di speciale…

E d’improvviso mi sento soffocare e la sua presenza, di quel mio forte fratello che scaccia i demoni della mente spossata, mi manca.

 

Com’è grande New York, qui in America tutto è immenso, tanto vasto da smarrire. Eppure il mio universo è piccolo, un angusto spazio mi racchiude come una valva, una stanza appena e sono diventata un pianeta errante nell’infinito spazio senza l’ombra di un satellite, vulnerabile, privo di atmosfera. Esistono tanti universi, intorno a me, ognuno diverso, ognuno straordinario. A volte da questa finestra mi sorprendo a guardarli, i mille sistemi solari che brulicano di vita latente. Il mio preferito è là, si rifugia nei pomeriggi tiepidi sotto quell’alberello: una vecchia madre inferma, fragile e sottile che sembra spezzarsi o svanire svaporando nel vento, adagiata senza quasi peso sulla sedia a rotelle, con un figlio seduto sulla panchina accanto, curvo forse per non fare sentire lei troppo curva, immobile perché i minimali moti della mamma paiano gran movimenti. Si guardano e si tengono la mano, in silenzio. Rinovellano il loro amore in quel gesto infinito. Ecco, quello è un bell’universo geloso, chiuso, esclusivo, prezioso, un universo che mi fa un po’ invidia. Se avessi avuto un figlio…

 

Ma sì, pensandoci, forse quella delle ruote è già una storia potrei condirla un po’, è un aneddoto ingenuo, innocuo, che fa sempre sorridere. Che nasconde un po’ le rughe, la carne fin troppo morbida, la fatica di vivere. Queste mani amavano suonare il piano, volavano sulla tastiera, e adesso sono rigide come stecchi, inutili apofisi che non so mai dove posare. Ghiacce anche in estate, esangui. Non stavano mai ferme. E le galline da nutrire… pio pio pio, e la sfoglia da impastare, e l’ago da reggere, così sottile, con l’occhio strizzato quando si faceva passare il filo nella cruna. E le pagine da girare e girare. Poi si suonava ancora il mio piano, a quattro mani, così mi piaceva. Il mio Blüthner, chissà se gli manco come lui manca a me. E se Hans-Jo, l’amico a cui lo diedi in custodia prima della partenza, di tanto in tanto siede sul seggiolino e posa le sue dita sui tasti.

 

Aveva belle dita, affusolate, marmoree, un po’ nodose, come tutto il suo corpo, così ossuto, inguantato in abiti sempre troppo larghi. Tormentato, solitario, ma all’occorrenza buon conversatore il mio Anzio (così lo chiamavo, affettuosamente). Se fosse qui che direbbe? Saprebbe fingere come fanno tutti che sono tutto sommato di bell’aspetto, o mi sorriderebbe mesto, soffrendo del mio stesso dolore? Mi incoraggerebbe, o se ne starebbe qua, con le mani in grembo, tra quelle sue lunghe gambe un po’ divaricate, la schiena imbarcata, cercando nel soffitto una risposta? 

 

Tutto è finito ormai, forse a Princeton sono già nella sala d’aspetto di quell’ultimo treno che prima o poi arriva per tutti. Albert ha giornate piene e serate stanche, quando ritorna a casa, e lo aspetto dietro alla finestra, nella sequenza di attimi precisi; appena lo vedo mi cucio svelta la faccia lieta della sorellina minore, quella che a lui piace tanto e che lo gratifica, e lo accolgo. Siamo rimasti io e lui soltanto, con la differenza che Albert Einstein si è guadagnato l’immortalità, mentre Maja scomparirà nelle nebbie del domani. Non mi dispiace, ho già detto che se potessi scegliermi un potere sceglierei l’invisibilità.

 

Sapete quanti anni ho? Sì, è solo un numero l’età, così dicono, ma io questi anni me li sento tutti uno per uno come grossi sassi nelle tasche. Sassi che mi tirano al fondo. Sono sessantotto, se ci penso mi sembra impossibile averne vissuti così tanti. Talora mi concentro e mi guardo vivere ancora là, tra le colline grigio verdi di Quinto, con le mie galline di razza livornese (le conoscete? Quelle che fanno uova bianchissime, che paion di gesso), gli arnesi di cucina, il pergolato, gli amici artisti, il mio adorabile Paul che gironzolava con quei suoi abiti sdruciti e sbiaditi da avvocato messo in naftalina… Chissà quant’è cambiato lui pure, dopo tutti questi anni vissuti lontano. E come mi vedrebbe, se gli capitassi ora inaspettatamente davanti? Una cosa, tra coniugi, è invecchiare insieme, una cosa tornare a congiungersi quando la vita ti trasforma in un paio di estranei. Non lo conosco più, se non nei miei ricordi. Gli universi si toccano, incrociano le loro orbite, poi viaggiano in direzioni differenti, destinati a non trovarsi mai più, anni luce, anni luce lontani. 

 

Ieri ho guardato a lungo la pioggia, uno scroscio che sobbolliva sulla terra mantata di polvere, la rallegrava di perle che si rincorrevano a ritmo, e mi ha invaso un qualcosa che in un’altra vita avrei definito felicità. E mi pareva di sentirla, quella gioia primigenia, e la terra bere e bere come il bimbo alla fontana, le mani roride al mento, dopo la corsa impazzita che gli ha infiammato il viso. I rivoli ialini scendevano ancheggiando, poi svanivano in un anfratto, e mi sembrava di andar così nelle viscere del mondo, al loro seguito, dalla luce sfacciata a quel buio tanto caro, che mi nasconde ai miei stessi occhi. Piovve una mezz’ora appena, poi il sipario grigio del cielo si aperse e rimise in scena il sole. Così mi discostai dalla finestra, quasi delusa dal breve durare di quella gioia. Arrivò in quella mio fratello, quasi di sorpresa, con la testa, le spalle e le scarpe inzuppate, si mandava via dagli abiti l’acqua con le mani borbottando qualcosa. Odorava di pioggia, mentre io non odoravo di niente.

 

Anzio, dove sei ora? Ti sei scordato della tua vecchia amica. I giovani fuggono per le loro traiettorie, sono quelli che hanno più tempo, ma sembra non bastargli mai. E io, vecchia ormai dai giorni corti, io che dovrei cullare prezioso ogni attimo, le trascorro così, le mie ore, a far niente, a misurare di passi queste stanze che non son nulla, questi pavimenti su cui le suole felpate non fanno rumore. Non ho odore, nessuna voce, se svanissi qui e ora sarebbe uno scomparire senza conseguenze, e questa mia ingombrante carne smetterebbe di rubare spazio al pianeta. Andrebbe a costruire la materia di altre vite, perché nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. Albert mio, non è vero che il tempo è relativo, è qualcosa di inesorabile e fisso, con una traiettoria lineare, così scandito che neanche il miglior metronomo potrebbe essere tanto preciso.

 

E la cosa peggiore non sarebbe neppure invecchiare, svegliarsi ogni mattina con un dolore nuovo, con uno scricchiolio che ieri non c’era, un dubbio e una paura. La cosa peggiore è dover sopravvivere alla propria metamorfosi, non riconoscersi allo specchio, non rivedere se stessi in un vecchio scritto, in una lettera di tanto tempo fa, scoprire che ciò che ci piaceva ci è indifferente, che le cose per le quali tanto abbiamo lottato erano in fondo le più insulse. Accorgersi che chi si diceva amico è divenuto estraneo, o peggio ci ha ingannati. 

 

Io che non avevo le ruote, che mi aggiravo in un mondo piccolo, che lo plasmavo mentre anche lui stava plasmando me. Ora vorrei proprio che qualcuno me le montasse, quelle ruote, o forse mi fissasse alle scapole delle ali grandi per fuggire lassù, su quella faccia spavalda di luna che, solo al pensarci, mi fa sembrare ogni cosa tanto evanescente e inconsistente, che cancella i dolori, gli affanni, tutti gli sciocchi desideri, le rivalse, le parole che avrei voluto dire e non ho mai osato. Le conquiste umane, le scienze (anche quelle del mio amato fratello), i premi, le ricchezze materiali e le cosiddette fortune. Starmene là come un vetusto meteorite a contemplare, insaccata in una impalpabile polvere grigiastra, ogni scena con distacco e disincanto, e finalmente smettere di sentirmi sempre un passo indietro agli altri, quella che non sa fare, che sbaglia, che fallisce, bensì l’unica ad aver capito la fragilità dei destini umani. E che tutto passa.

 

Oh, ecco Albert che arriva, ora basta con queste ubbie, devo indossare il sorriso più bello. Vediamo… così? Che ne dite? Bene, arrivederci, anche per oggi Maja è pronta per recitare a soggetto. Ci vedremo domani, se vorrete. 

 

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